Campione italiano nel '48, campione europeo nel '49, Tiberio Mitri inizia il 1950 sotto eccellenti auspici e con numeri da primato: 53 incontri disputati, 49 vittorie, tre pareggi e un no contest. La marcia del pugile di Trieste, città che suscita palpiti, verso il titolo mondiale sembra inarrestabile, accompagnata da soldi, fama e dalla splendida moglie Fulvia Franco, miss Italia 1948. Il 12 luglio, al Madison Square Garden di New York, affronta il campione, Jack La Motta, detto il "Toro del Bronx", ventottenne italo-americano solido e potente, un pericoloso picchiatore. Il match è aperto, Mitri è imbattuto, più giovane (24 anni) e integro, si dice che la mafia del ring punti su di lui. Insomma, ci sono le condizioni perché la corona dei medi attraversi l'Atlantico.
Faccia da schiaffi
Biondo, bello, occhi blu, faccia da schiaffi, 70 chili di muscoli guizzanti, Tiberio non ha avuto una vita facile. Nato nel '26, ha perso il padre a dieci anni, ha conosciuto la miseria, ha fatto il garzone di panetteria e il radiotecnico, poi, entrato in palestra, si è messo a fare boxe. Carattere difficile, violento, pieno di energie e di voglia di vivere, fisicamente molto dotato, sfonda nel mondo del pugilato. Pochi anni e Frankie Carbo, il gangster che controlla la boxe della Grande Mela, lo porta sul ring per il titolo mondiale: è l'american dream dell'angelo biondo. Dalla bora al Madison il passo è lungo ma Mitri non ha paura: sa di essere forte. Non immagina, però, di avere un punto debole, la moglie. Mentre Tiberio si allena a New York, Fulvia, giovane attrice in cerca di scritture, coltiva a Hollywood il proprio american dream: provini, fotografie, cocktail, forse qualche concessione alle galanterie hollywoodiane. Tiberio impazzisce di gelosia, perde la concentrazione, si allena poco e male, non ha il cuore duro e la forza testarda, o forse è solo un uomo innamorato.
Il match
Con il Madison pieno come un uovo, in un'afosa serata di luglio, suona il primo gong del match della vita. Mitri non è lui, è l'ombra del pugile veloce e potente che ha conquistato l'Europa; è lento, scarico, quasi distratto, incapace di imporre la propria boxe in velocità al "Toro del Bronx". Alla quinta ripresa perde molto sangue da un sopracciglio, i pantaloncini bianchi si sporcano, la resa sembra imminente. Tiberio, invece, resiste, barcolla ma resta in piedi. Il pubblico è in delirio per il match durissimo e per il suo coraggio. Il verdetto, dopo 15 round, è di sconfitta ai punti. Tiberio ha dato tutto quello che gli era rimasto dentro ma non è bastato. Ha perso nel modo peggiore, avendo nei pugni le carte per vincere. E' la sua prima sconfitta, nel giorno del compleanno. Quando si spengono le luci del Madison, è un uomo distrutto. L''America lo ha svuotato, prima lo ha illuso, poi lo ha distrutto. Il sogno è svanito. Ha perso l'amore, è uscito dal grande giro. Le sliding doors si sono aperte per un attimo ma il destino le ha chiuse. Se la boxe fa male, la vita fa anche peggio.
E' finita
Il bell'italiano, dai lineamenti regolari segnati dai colpi, rientra a Trieste. Non combatte più per il mondiale. Riconquista il titolo europeo nel '54 ma dopo pochi mesi è spazzato via dal picchiatore francese Humez. Si ritira nel '57, lo stesso anno in cui si separa da Fulvia, dopo tante sbronze insieme, tanti litigi e tante botte. Il 12 luglio del '50 ha lasciato segni profondi. Nel giorno della separazione i rotocalchi li inseguono per l'ultima volta, lei tradita dal cinema e vagamente ingrassata, lui dallo sguardo lievemente intontito. Poi il silenzio.
La morte
Tiberio tenta la strada del cinema, da grande campione diventa un piccolo divo di Cinecittà. Ma l'ex "Toro di Trieste" è un uomo maledetto, che fa di tutto per farsi del male. Alcol, droga, prigione, Alzheimer, entrambi i figli morti, uno di eroina, l'altra di Aids. Una vita bruciata. "Lo sport _ dice _ alla fine ti lascia solo". "Sono un diseredato _ scrive nell'autobiografia "Una botta in testa" _ Quello che si crea in una vita si può perdere in dieci secondi". Gli tremano le mani, vive in una roulotte, poi in una pensione romana, con il frigorifero vuoto come i suoi sogni. Ha ancora un bel viso, segnato, alla Chet Baker, ma il suo è il regno delle ombre. Se ne va per sempre a Roma, in un'alba livida d'inverno. E' il 12 febbraio 2001. Cammina lungo i binari, non sente il fischio del treno, è travolto. Andava in direzione ostinata e contraria, come nella boxe, come nella vita.